Visto Da Lei

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Aunt-nephew love.
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ULISSE
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Non è assolutamente mia intenzione giustificarmi.

E con chi dovrei farlo? A chi dar conto? A Dio? Con lui me la vedrò a suo tempo!

Qualcuno mi potrebbe dire che sono invidiosa, cioè che ho un'astiosa e maligna.disposizione d'animo verso ciò che reputo le 'fortune' degli altri.

Niente di più sbagliato.

Io mi rallegro e compiaccio delle fortune, o meglio della normalità, degli altri. Se mi mostro, a volte, insoddisfatta, è per la mia vita, per come si è svolta. Da sempre.

Per ragioni che non mi sono mai state ben chiare, camminavo appena quando mio padre, che stava avviandosi ad una brillante carriera professionale, abbandonò la sua patria, sostenendo che doveva, e andò lontano. I rapporti con la famiglia non furono troncati, ma la distanza, e le difficili comunicazioni di allora, rendevano difficoltosi perfino i rapporti epistolari.

Quando vedevo le altre bambine col loro padre, non le invidiavo, no, ma soffrivo perché io non ero col mio.

Ammiravo lo sforzo di mia madre, per darmi una vita abbastanza accettabile, ma dovevamo controllare le spese, contenerle nei limiti di una molto modesta possibilità.

Le mie amichette, figlie dei colleghi di mio padre, erano sempre più vestite di me.

Questo aveva amare conseguenze. Ero sempre imbronciata, poco socievole per tema di non essere gradita dagli altri, ed era difficile che un ragazzo preferisse me, il mio carattere, alle svenevolezze delle altre. E dire che ero tutt'altro che brutta: alta, slanciata, con tutto giusto al posto giusto.

Quando fu il tempo, le mie coetanee cominciarono a sposarsi (allora si era considerate zitelle molto prima dei trenta) ed io auguravo loro ogni bene, ma avrei voluto che un po', di quel bene, toccasse anche a me.

Non lo so perché accettai la sua corte.

Non era male, indossava con garbo la divisa. E poi c'era sempre l'angoscia della zitellagine. Mio padre era prematuramente morto (lo leggemmo sul giornale, dopo più di due mesi, perché le stampe giungevano con un certo ritardo) e mia madre viveva il tormento di lasciarmi sola, una volta che lei fosse scomparsa.

Mi sposai, dunque. Senza infamia e senza lode, ma anche senza passione, forse senza quello che gli altri chiamano amore. Rassegnata, ma non potevo dirmi contenta.

Tanto per confermare l'impossibilità che vivessi una esistenza 'normale', mio marito pensò bene di buscarsi una broncopolmonite galoppante, e dopo sei anni se ne andò al creatore.

Trentatré anni, vedova, con un figlio da allevare.

Mi rallegravo che le altre uscissero con marito e figli. Ma non si può pretendere che fossi contenta del mio stato!

Mi mancava un uomo? Il maschio?

Non lo so. Era vero, però, che dovevo tirare avanti da sola.

Quando un collaboratore di mio marito mi veniva a trovare, con molta cortesia, mi sembrava una manna. Era giovane, simpatico, di gradevole compagnia, ma non mi risvegliava alcuna sensazione. Chissà se fu per questo che non si fece più vedere.

Erano trascorsi tre anni dal momento che ero rimasta sola. Trentasei anni di vita così.

Mimmo, il mio bambino orfano, era andato dalla nonna paterna, in montagna, e l'aria fine, certo, l'avrebbe aiutato a superare la lieve anemia che l'affliggeva, sostenuta dalla sana alimentazione e dalle cure nella nonna.

Ero completamente sola, dunque, e le saltuarie supplenze alle quali ero chiamata, non mi aiutavano, date le vacanze. L'unica persona che bazzicava per casa, era Marietta, la domestica, che veniva a sbrigare le poche cose che c'erano da fare.

Piero, il primo fratello di mio marito, preside in un piccolo capoluogo, a circa duecentocinquanta chilometri da Roma, non era assistito, anche lui, dalla buona stella. La moglie era rimasta vittima, unica, di un incidente stradale, un semplice ma violento tamponamento, che l'aveva sorpresa mentre tornava a casa dal vicino paese dove insegnava. Le nostre famiglie erano accomunate da una specie di maledizione. Nel parentado, inspiegabilmente imbevuto di ancestrali e superate leggi, era convinto, inizialmente, che Piero avrebbe accolto nella sua casa la vedova del fratello. Cosa che non pensammo mai. Né io né lui.

Ci sentivamo di quando in quando, e ci legava un certo affetto, forse sarebbe più esatto una certa amicizia impastata dei dolori vissuti.

Fui contenta di sentire la sua voce.

"Ciao Elda, come stai?"

"Bene, grazie, e voi?"

"Tiriamo avanti. Ti ho disturbata..."

"Nessun disturbo, anzi..."

"Per dirti se conosci una pensioncina.."

"Per chi?"

"Lele, che ha raccolto un po' di soldi con i regali ricevuti per la sua maturità, vorrebbe trascorrere un periodo di tempo a Roma, per conoscerla, e anche per decidere se frequentare quella università."

"Complimenti a Lele, ma che bisogno c'è della pensione, posso ben ospitarlo io, come sai ho tutto il posto necessario."

"Grazie, ma, vedi, non vogliamo arrecarti disturbo e gravarti di impegni..."

"Ma quale disturbo."

"E poi, scusa, non vogliamo appesantire la tua economia che deve essere giustamente controllata."

"Non preoccuparti, Piero. Sarò lieta di avere qui Lele."

"Si ma ad una condizione."

"Quale?"

"Che accetti il mio modesto contributo per le spese...."

"Non ci vuole..."

"E' un mio vivo desiderio, ti prego, consentimelo..."

"Va bene. Quando verrebbe Lele?"

"Se sei d'accordo arriverebbe a Roma poco dopo mezzogiorno, domani."

"Lo aspetto con piacere. Mi farà un po' di compagnia e io potrò essergli una discreta guida."

"Grazie, Elda, ti abbraccio."

"Ciao, Piero."

Lele era il suo primogenito, stava per compiere i diciannove anni, era circa due anni che non lo vedevo.

L'indomani, con Marietta, preparammo la camera degli ospiti, ci assicurammo che tutto fosse a posto: asciugamani, accappatoio, anche le pantofole di spugna, e liberai una parte dell'armadietto del bagno.

Mancava poco alle tredici quando udii bussare alla porta.

Guardai dallo spioncino.

Un giovane, alto, bruno, vestito sportivamente ma con una certa accuratezza, era sul pianerottolo.

Aprii.

"Ciao, zia.."

Prima ancora che richiudessi l'uscio mi aveva stretta tra le sue braccia e mi baciava affettuosamente, con trasporto.

Il primo pensiero che mi attraversò la mente fu che ero 'tra le braccia' di un uomo.

Avevo lasciato un adolescente, ero di fronte a un simpatico ragazzone, un po' più alto di me (ma io avevo i tacchi) e con un volto gioviale, simpatico, accattivante.

"Ciao, Lele, sei diventato un uomo, non ti avrei riconosciuto."

"Tu sei sempre la stessa, stai benissimo."

Entrò, con la grossa valigia, chiusi la porta. Mi guardò ancora, tornò ad abbracciarmi.

"La mia bella zietta. Sono veramente contento di essere qui."

"Vieni, spero ti troverai bene. Credo che tu voglia rinfrescarti. Nella tua camera troverai gli asciugamani.

Andò in camera, lasciando la porta aperta, tolse la camiciola che indossava, restando a.torso nudo, prese l'asciugamano, si avviò al bagno. Lo seguivo con lo sguardo, senza rendermi conto che ero rimasta nell'ingresso, come sorpresa. Senza sapere di cosa. Forse lo sapeva il mio subconscio.

Andai in cucina per verificare che l'arrosto fosse a puntino, come lo sformato, poi in sala per controllare se la tavola era ben apparecchiata

Lele, era tornato in camera, dopo poco si presentò, indossando una camicia pulita, senza giacca.

Gustò con piacere il cibo, volle solo assaggiare il vinello frizzante che avevo tenuto in fresco, gradì la tazzina di caffè che chiuse il tutto.

"Forse vorrai riposare un po', ti sei dovuto alzare presto, e il viaggio stanca sempre. Io metto tutto via, domani ci penserà Marietta, e vado anche a schiacciare un pisolino."

Si alzò, mi venne vicino, mi sfiorò il viso con un bacio.

"Grazie di tutto, zietta, forse è meglio un riposino."

Si avviò alla sua camera.

Quando mi avviai verso la mia, di fronte a quella di Lele, vidi che aveva lasciata aperta la porta. Era sul letto, con i soli pantaloncini, e già dormiva, supino, con espressione soddisfatta. Entrai nella mia camera, chiusi l'uscio, mi spogliai rapidamente, indossai una leggera camiciola e mi sdraiai sul letto, immersa in pensieri confusi che, però, non cercavo di chiarire.

Al di là del corridoio, nell'altra stanza, c'era un uomo, e dormiva.

Dopo tanto tempo, un uomo dormiva in un letto della mia casa. Non nel mio, però. Ecco la scarsa lucidità del pensiero. La mia casa, un uomo, un letto, il mio letto!

Non consideravo affatto che quell'uomo era Lele, il figlio del fratello di mio marito, mio nipote. Si, va bene, ma era un uomo, nella mia casa, a pochi metri da me. Dormiva. Non mi era facile assopirmi, e quando mi accadde dovevo essermi agitata, perché mi svegliai madida di sudore, e con uno insolito turbamento. Ci voleva una doccia. Mi alzai.

Lele era seduto in poltrona, sempre in calzoncini, e leggeva una rivista. Alzò gli occhi e mi sorrise. Solo allora mi ricordai che ero ancora in camicia da notte, e per di più bagnata di sudore, appiccicata addosso. Mi guardava fissamente, e sentivo scorrere il suo sguardo sul mio corpo, soffermarsi qua e là, tornare su determinati dettagli, ed aveva un'espressione di compiacimento. Credo che arrossii.

"Scusa, Lele, sono uscita così, senza vestaglia, perché credevo che tu dormissi ancora. Vado a fare una doccia."

Non mi rispose, ma mentre mi allontanavo, lentamente, sentivo ancora i suoi occhi su di me.

Doccia ristoratrice, ma non calmante.

Tornai in accappatoio, in camera mia, mi vestii, e, pettinata e sistemata, mi diressi al tinello. Non c'era nessuno, anche la camera di Lele era vuota. Sentii scrosciare l'acqua della doccia.

Quando mi raggiunse, ero intenta a fare un solitario, con le carte.

"Ci voleva la doccia, vero zia?"

Annuii.

"Ti distraggo?"

Raccolsi le carte, le riposi nella loro custodia.

"Figurati, era solo per passare il tempo. Hai qualche programma per oggi?"

"Pensavo di fare un giretto per cercare di adattarmi alla grande città. Mi piacerebbe, domani, andare al mare. Che ne dici, ci andiamo? Ho con me anche il costume."

"Non ci vado da non ricordo quanto, e credo di non avere neppure il costume..."

"Possiamo comprarlo. Andiamoci insieme."

Ecco di nuovo lo stato di confusione mentale, di ansia, indecisione.

"Puoi andarci solo, Lele."

"Non sarebbe la stessa cosa. Via, usciamo a comprare il costume, ce ne sono dei bellissimi, del tipo di quelli che indossano le nuotatrici nelle pellicole di Hollywood, a te starebbe benissimo."

Credo che arrossii nuovamente. Che ne sapeva, lui, che mi sarebbe stato benissimo? Ah, già, mi ero presentata a lui con quella camicia sudata...

"Va be', andiamo a comprare il costume."

Dissi alla commessa che volevo un costume... ma Lele aggiunse che doveva essere uno di quelli che indossavano anche le nuotatrici....

"Ho capito" –disse la commessa- "ce ne sono dei bellissimi, appena giunti dalla Germania, dalla fabbrica che fornisce Hollywood. Li prendo subito."

Tornò poco dopo con delle scatole.

Osservai che non ritenevo adatti alla mia età quel genere di costumi, ma la commessa, guardandomi da capo a piedi mi disse che avevo un personale perfetto. Lele confermò con calore. Forse troppo. E la commessa lo guardò aggrottando la fronte. Per fortuna che si affrettò ad aggiungere: "Ti staranno benissimo, zia. Prendi quello color acquamarina..."

Scelsi quello. La commessa mi assicurò che non era necessario provarlo. Potevo farlo con comodo a casa e che in ogni modo lo avrebbe potuto cambiare con un altro entro il giorno successivo.

Appena usciti dal negozio, Lele mi propose di andare a casa, per provarlo, perché, nel caso, avremmo dovuto cambiarlo subito. L'indomani era dedicato al mare.

Tornammo a casa.

"Allora, Lele, vado a provarlo."

"Va bene, io ti aspetto nel tinello."

Ci misi poco a indossarlo, guardandomi allo specchio dovetti riconoscere che la commessa aveva ragione, mi sembrava che calzasse a pannetto. Anche il colore era bello, e s'intonava perfettamente con quello dei lunghi capelli che avevo sciolto per giudicare l'effetto complessivo di quella 'mise'. Da quanto tempo non mi vedevo in costume da bagno.

Schiusi l'uscio, chiamai Lele. Venne subito, entrò.

"Come mi sta?"

"Sei uno schianto, zietta, una favola, e dire che eri in dubbio se acquistarlo o meno."

"Che ne dici, i capelli, sono meglio raccolti o così?"

"Per me sono meglio sciolti, formano una cornice incantevole. Girati un po'"

Mi girai lentamente, lui mi guardava sorridendo.

"Mi sembra abbastanza elastico, vero zia?"

"Si, me lo sento bene addosso."

"Prova a curvarti, a sederti."

Mi curvai. Lele osservava il mio petto, poi fu la volta delle anche.

Sedetti in poltrona. Solo allora mi accorsi che la mia avversione alla depilazione era manifesta. Qualche ricciolo ribelle sfuggiva dal costume. Lele lo fissava, ed era certo che gli provava una certa eccitazione. Lo si scorgeva chiaramente. Il fatto, però, era che la sua eccitazione si trasmetteva anche a me, ed energicamente. Sentivo che la mia vulva stava esaltandosi, e che la linfa che andava distillando la mia vagina mi dimostrava come la mia vitalità, la mia sessualità, fosse tutt'altro che assopita. Non m'era mai capitato, prima di allora, provare simili conturbanti sensazioni. Mai. Forse era per la lunga astinenza. Era un fatto innegabile, però, che il gonfiarsi della patta di Lele era stato un messaggio chiaramente ricevuto e prontamente recepito, al quale la mia natura aveva risposto con un appassionato 'pronta!', ma lui, credo, non se ne era accorto. Però, seguitava a guardare i peluzzi che facevano capolino dal costume.

Il tram ci portò alla stazione dalla quale partivano i trenini per il mare. L'ora e il giorno feriale, non ci coinvolsero nel solito affollamento domenicale.

Trovammo due posti, vicini, in fondo alla carrozza di testa. C'era pochissima gente. La giornata era splendida, non molto calda. Le nostre anche si toccavano, percepivo il suo calore, era piacevolissimo, il movimento del trenino trasformava quel contatto in una carezza continua, un lieve delizioso massaggio che si spandeva in tutto il corpo, specialmente nel grembo. Lele posò la sua mano sulla gamba, con indifferenza. Ma io ne ero indifferente.

I miei sensi andavano sempre più tornando alla vita.

Errore. Non erano stati mai vivi, nel giusto senso della parola. Avevano tirato avanti in una specie di torpore, senza entusiasmo, senza coinvolgimento. Non era mai accaduto che il calore d'un fianco, il tocco d'una mano mi facessero vibrare. Si, m'eccitavano, mi facevano sentire una allupata, una che gli avrebbe detto, presto, qui, adesso...

Doveva certamente essersi accorto del muoversi delle mie cosce, non riuscivo a frenarlo.

Ero combattuta tra il 'tempo non passa mai' e 'purtroppo presto finirà'.

Finì quando giungemmo all'ultima fermata, di fronte allo stabilimento della vecchia pineta.

Lo aveva scelto lui, chissà come. Gli avevo detto che era un ambiente un po' elitario e abbastanza dispendioso. Mi aveva dato una amichevole pacca sul sedere (non prevedevo una tale confidenza, ma non mi dispiacque affatto) rispondendo che quel giorno era ospite mio, che aveva messo da parte un bel gruzzolo, con tutti i regali ricevuti, e che la nonna materna lo finanziava molto generosamente. Le mie obiezioni non servirono a nulla.

Poca gente, alla vecchia pineta, e un ambiente molto ricercato. La spiaggia pulitissima, gli ombrelloni abbastanza distanti l'uno dall'altro Ci facemmo assegnare una cabina con doccia. Ci sarebbe servita per dopo il bagno, perché avevamo già indossato, a casa, i costumi. Lele chiese di riservarci un tavolo per le tredici. Gli feci una occhiataccia ma finse di non vederla.

Il bagnino ci accompagnò alla cabina, l'aprì, ci mostrò che tutto era in ordine.

"Se lei o la sua fidanzata avete bisogno di qualche cosa basta un gesto della mano e sono subito da voi."

Si allontanò ringraziando per la mancia che Lele gli fece scivolare in mano.

"Quello deve avere le traveggole, Lele, mi ha scambiato per la tua fidanzata! Alla mia età...!"

"Quello ha visto bene. Non ti sei accorta come ti squadrava? Sembri una ragazzina."

"Si, di trentasei anni."

"Ne dimostri la metà!"

"Per gamba!"

"Bugiardo adulatore. Inoltre, non credi che era meglio se andassimo a far colazione in un posto meno caro?"

"Nulla è caro per chi ha una fidanzata così."

Mi prese per mano, la sollevò, mi fece fare una piroetta.

"Sei proprio matto."

Ma mi divertiva, riusciva a farmi sorridere. Non mi accadeva da tanto. Se devo confessarlo, non avvertivo affatto tutti i miei anni, non mi ricordavo d'avere un figlio, avevo messo in disparte i drammatici eventi della mia vita. Ecco, da ragazza mi sarebbe piaciuto sentirmi così.

Mi venne da pensare al suo nome, Lele, Raffaele: 'dio guarisce', l'Arcangelo che liberava dal demonio. E quale maggior demonio dei miei ricordi? Lele, balsamo per i miei mali.

Eravamo entrati in cabina. Bastò togliere gli abiti e appenderli agli attaccapanni.

Lele mi guardò sorridendo.

"Ragazzina, ma ti sei guardata allo specchio?"

"Perché?"

"Hai visto che fisico che puoi sfoggiare?"

"Perché, com'é? Me lo vuoi dire?"

Sentivo di fare la vezzosa, e assunsi anche un'aria civettuola e provocante.

"Vedi, io non so usare espressioni romantiche. Quelli della mia età sono, come dire, un po'... ineleganti, grossolani.."

"Devi essere te stesso... allora? Come mi consideri?"

Mi prese per le mani, le sollevò un po', esaminandomi minuziosamente.

"Sei uno schianto, una favola, una visione."

"Tutto qui?"

"No, perché sei più perfetta d'una modella, più bella della più bella statua: i capelli di Berenice, gli occhi di Glauca.... il petto di Diana, il... culo... lasciamelo dire... più seducente di quello di Venere callipigia."

Sentivo che stavo tremando. Lo guardavo eccitata.

Si sentì stimolato.

"Zi', tu hai un paio di chiappette prensili che ti fanno perdere la testa, il controllo... Scusa... Ti ho offesa?"

La mia voce non era chiara, e rivelava la mia emozione.

"No, è sempre un complimento lusinghiero, anche se in termini alquanto coloriti e vivaci. Credo che devo fare un bagno..."

Mi allontanai da lui, uscii dalla cabina, mi avviai alla riva.

L'acqua fresca mi aiutò a rimettere in ordine le idee. Così non potevo andare avanti. Fin quando non ci si accorge di essere affamati non si pensa al cibo, ma quando ci afferra il crampo della fame come si può resistere alla leccornia che è a portata di mano, che ci può saziare?

Quando tornai verso l'ombrellone, Lele era sulla sdraio, con un telo sul ventre... guardando il mare... lo sguardo sperduto nel vuoto. Mi vedeva avvicinare e sembrava volermi sbranare con gli occhi. Come mi sarebbe piaciuto essere la sua preda. Mi avvicinai, grondante acqua, col costume che esaltava ogni particolare del mio corpo, mi chinai su lui, gli sfiorai il volto con un bacio. Mi carezzò lievemente la schiena.

Dopo lo squisito pranzo, decidemmo di andare al fresco della pineta. Prendemmo le sacche, nelle quali avevamo riposto anche i costumi, dopo averli fatti asciugare, e ci avviammo.

L'ombra era gradevole, la terra soffice per gli aghi dei pini, dagli alberi la resina emanava un profumo inebriante.

Trovammo un luogo abbastanza appartato, con dei cespugli che sembravano volerlo nascondere agli sguardi indiscreti. Lele mi guardò e, senza parlare, aprì la sacca, estrasse un largo telo a spugna, lo stese per terra. Prese pure quello che conservavo nella mia borsa, lo ripiegò, come a farne un cuscino, lo mise su quello di prima.

"Prego, principessa, per il suo riposo."

Mi sdraiai.

"Veramente, dopo questa mattinata, il pranzo, il vinello, gli occhi mi si chiudono." Tesi la mano. "Vieni qui anche tu. C'è posto."

Si sdraiò accanto a me. Io ero supina, lui si mise a pancia sotto. Pose il braccio sul mio petto, abbracciandomi. La sua bocca sfiorava la mia mammella. Dopo un po' sentii il suo respiro profondo. Dormiva. Beato. E Morfeo vinse anche me.

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